LA REPUBBLICA -
Dario Fo "Un altro massacro"
Genova, 16 Dicembre 2007
Anche ieri si sono susseguite le dichiarazioni sull´esito del processo
contro i 25 imputati di devastazione e saccheggio per i disordini del G8
del 2001.
«Un altro massacro» è l´esordio del duro commento del premio Nobel Dario
Fo.
L´attore e regista lo ha detto ieri sera a Vicenza parlando con i
giornalisti al termine della manifestazione dei No Dal Molin contro la
base Usa, alla quale ha partecipato assieme alla moglie Franca Rame. «Le
condanne rappresentano un momento deleterio - ha proseguito Fo - sul piano
della credibilità del Governo, un esecutivo di centrosinistra che non ha
variante, né diversificazione rispetto a quello di centrodestra.
Rappresentano la stessa logica di punire duramente i manifestanti e
cercare di non infierire sulle forze dell´ordine che hanno massacrato».
Si contiene, ma con difficoltà, il segretario del Pdci Oliviero Diliberto.
«Preferisco non giudicare mai le sentenze, perché altrimenti ci mettiamo
al livello di coloro i quali attentano all´indipendenza della
magistratura» ha detto durante un´intervista a Reggio Calabria.
«Le sentenze - ha aggiunto - si rispettano. Ci sarà un appello, i giudici
decideranno. Diciamo che mi aspetto altrettanto rigore, e forse maggiore
rigore visto che si tratta di forze dell´ordine, nel troncone di processo
che riguarda gli abusi compiuti alla scuola Diaz e nella caserma di
Bolzaneto».
Prende posizione anche l´Arci che ieri dalla sede nazionale ha diffuso un
comunicato: «La verità sui fatti di Genova la conosce ormai tutto il
paese, ma la giustizia continua ad essere lontana. Non smetteremo di
chiederla. Non smetteremo di batterci per la Commissione di Inchiesta. Per
noi, per le vittime, per ridare dignità al nostro paese».
Il paesino di tremila anime in una lontana valle di Lecco, l´educazione
cattolica, poi l´adesione all´anarchia, la vita in una casa occupata e
l´assistenza agli anziani con la cooperativa Caritas. Quindi il 2001 a
Genova e corso Buenos Aires a Milano nel 2006. Marina Cugnaschi, 41 anni,
un metro e sessanta per poco più di quaranta chili, è dall´altro ieri il
volto del black bloc del G8. E´ sua la condanna più pesante - 11 anni -
del processo contro i 25 imputati di devastazione e saccheggio. Alla pena
rimediata a Genova la Cugnaschi deve aggiungere altri 4 anni, sempre per
lo stesso reato, rimediati per gli scontri di corso Buenos Aires, marzo
2006 a Milano quando scoppiò la rivolta contro la manifestazione dei
neofascisti di Forza Nuova. Certo è che la condanna della Cugnaschi, se da
un lato ha già innescato il dibattito sulla necessità di rivedere le pene
per questo reato (tra i sostenitori il magistrato Livio Pepino consigliere
del Csm), dall´altro obbliga ad approfondire, se non dal punto di vista
giudiziario almeno da quello storico e sociale, il ruolo di una
manifestante che, seppur violenta, si è beccata una condanna degna di una
primula rossa del terrorismo.
«Mia figlia mi ha detto che ha la coscienza a posto e io le credo. Se è
finita in quel processo è perché ha seguito qualche compagnia sbagliata».
L´anziana madre di Marina parla al telefono dalla sua casa di Ballabio,
paesino ai piedi dei monti della Grignetta. La mamma è sempre la mamma,
d´accordo, ma forse la Cugnaschi non è neppure la leader in cui l´hanno
trasformata le centinaia di scritte sui muri tracciate durante la sua
lunga carcerazione preventiva. Marina Cugnaschi, prima del 2001, e
nonostante Milano sia una delle culle dei movimenti disobbedienti, della
sinistra extraparlamentare e del cosiddetto insurrezionalismo, non aveva
mai subito una perquisizione per indagini su attentati o terrorismo. E´
una anarchica convinta, anche se di quelle che non aderiscono alla storica
federazione del Fai. Legge molto, è colta anche se proviene da una
famiglia semplice. Negli anni ‘90 a Milano lavora per la coop "Farsi
Prossimo" legata alla Caritas. Aiuta e assiste gli anziani. Con il suo
compagno vive in una casa occupata di via Raimondi dove c´è anche il
centro sociale "Villa Okkupata" che lei però non frequenta, preferendo
quello di via Torricelli, dove c´è una libreria fornita e un caffè
autogestito. Da un paio d´anni, per mantenersi, fa anche la barista, ma è
una che si accontenta di poco e nonostante sia ormai diventata una sorta
di simbolo, alle assemblee o alle manifestazioni non è una che interviene
o prende la parola per indicare strategie e obiettivi. Prima della
sentenza però, al processo di Genova ha voluto parlare: «Non chiedo
clemenza o sconti, perché non riconosco come interlocutore l´apparato
giudiziario. Rifiuto questo sistema capitalista sempre più spietato,
escludente, e la sua classe dirigente: sono loro i devastatori e
saccheggiatori del pianeta». Adesso, per l´opinione pubblica, si porta
addosso il peso delle sue colpe e forse anche quelle di quelli che, e sono
la maggior parte, l´ha fatta franca.